Irpinia 1930

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view post Posted on 20/11/2010, 16:15




Ci avete fatto caso?


QUEL TERREMOTO "POLITICAMENTE NON CORRETTO”
Strane dimenticanze






<deve esserci un esame di coscienza senza discriminanti né colorite
politiche riguardo a chi ha avuto responsabilità. Bisogna vedere come sia
potuto accadere che non siano state attivate indispensabili norme, che erano
state tradotte in legge e chiedersi come non siano scattati necessari
controlli>.

Sono parole del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, parole
apparentemente condivisibili. Ma sono parole e i fatti dimostreranno, una
volta ancora che, individuati i colpevoli di un così grave danno, cioè
coloro che non hanno attivato quelle norme che erano state tradotte in
legge, costoro, con marchingegni e raggiri riusciranno a farla franca. Come
ultima eventualità potranno godere di un più che certo nuovo indulto o
amnistia. L’uno e l’altra tanto comuni in questo Paese dei diritti e della
libertà.

Credo di essere una persona equilibrata, pertanto voglio riconoscere che nel
caso del funesto terremoto che ha sconquassato l’Abruzzo, gli interventi
sono stati tempestivi ed efficaci.
Ripeto, sono una persona equilibrata, ma molto scettico sulle capacità ed
onestà della classe dirigente scaturita dalla liberazione, di conseguenza
ritengo che gli interventi sopra indicati non siano altro che la ripetizione
(e questo sarebbe già cosa apprezzabile) di quanto si verificò a seguito di
quel terremoto avvenuto alcuni decenni fa, terremoto non politicamente
corretto.

Ci avete fatto caso che i mezzi di informazione hanno ricordato i principali
sismi che si sono verificati nel secolo scorso, partendo proprio da quello
che interessò Messina e Reggio Calabria nel 1908, la Sicilia 1967, l’Irpinia
1980, l’Umbria 1997, ma hanno dimenticato quello del 1930. Perché?
Provo a rispondere. Prima di affrontare il tema debbo parlare di me, ma
brevemente, non vi preoccupate, e poi siano i lettori a giudicare sul
"perché?".
Ho lavorato diversi anni all’estero, ma nel mio pendolare mi trovai in
Italia nel 1980, proprio nell’anno del terremoto che devastò l’Irpinia.
Nelle ore immediatamente successive al tragico evento, ascoltavo le ultime
notizie alla radio e fui colpito da una stranezza: un contadino del luogo
che stava rispondendo alle domande di un intervistatore, raccontava di aver
avuto la casa completamente distrutta e, cosa ancor più grave, di aver perso
una figlia. Alle insistenti domande del giornalista, il pover’uomo
rispondeva che tutto il paese era stato raso al suolo, ma le uniche case che
avevano resistito al sisma erano quelle costruite a seguito del terremoto
del 1930. A questo punto il contatto si interruppe, ma in modo così
maldestro da convincermi che era cosa voluta.
1930? Un terremoto? Non ne sapevo niente. Incuriosito volli indagare e
scoprii cose turche, turchissime.

Prima di addentrarmi ancora nel discorso, chiedo venia perché questo
argomento fu da me trattato in altra occasione e per alcuni lettori potrei
sembrare ripetitivo.
Ecco dunque i fatti, ricordando che stiamo trattando di un avvenimento
accaduto quasi ottanta anni fa, quando le attrezzature tecniche non erano
così sofisticate come quelle di oggi.

La notte del 23 luglio 1930 uno dei terremoti più devastanti (6,5° Scala
Richter) che la nostra storia ricordi (1.500/2.000 morti) colpì vaste aree
della Campania, della Lucania e del Subappennino pugliese: all’incirca,
cioè, quelle stesse regioni colpite dal sisma del novembre 1980 (6° Scala
Richter).
Mussolini, appena conosciuta la notizia, convocò il Ministro dei Lavori
Pubblici Araldo Di Crollalanza, certamente uno dei più prestigiosi
componenti del Governo di allora e gli affidò l’opera di soccorso e di
ricostruzione.
Araldo Di Crollalanza, in base alle disposizioni ricevute e giovandosi del
RDL del 9 dicembre 1926 e alle successive norme tecniche del 13 marzo 1927
(ecco come è nata la Protezione Civile), norme che prevedevano la
concentrazione di tutte le competenze operative, nei casi di catastrofe, nel
Ministero dei Lavori Pubblici, il Ministro fece effettuare, nel giro di
pochissime ore, il trasferimento di tutti gli uffici del Genio Civile, del
personale tecnico, nella zona sinistrata, così come era previsto dal piano
di intervento e dalle tabelle di mobilitazione che venivano periodicamente
aggiornate.

Secondo le disposizioni di legge, sopra ricordate, nella stazione di Roma,
su un binario morto, era sempre in sosta un treno speciale, completo di
materiale di pronto intervento, munito di apparecchiature per demolizioni e
quant’altro necessario per provvedere alle prime esigenze di soccorso e di
assistenza alle popolazioni sinistrate. Sul treno presero posto il Ministro,
i tecnici e tutto il personale necessario. Destinazione: l’epicentro della
catastrofe.

Naturalmente, come era uso in quei tempi, per tutto il periodo della
ricostruzione, Araldo Di Crollalanza non si allontanò mai dalla zona
sinistrata, adattandosi a dormire in una vettura del treno speciale che si
spostava, con il relativo ufficio tecnico da una stazione all’altra per
seguire direttamente le opere di ricostruzione.
C’è la testimonianza di un giovane di allora, il signor Liberato Iannantuoni
di Meda (Mi) che ricorda: <nella notte del 23 luglio 1930, il terremoto
distrusse alcuni centri della zona ai limiti della Puglia con la Lucania e l’avellinese,
in particolare Melfi, Anzano di Puglia, Aquilonia. Proprio tra le macerie di
questo borgo, all’indomani del terribile sisma, molte personalità del tempo
accorsero turbate da tanta straziante rovina, fra le quali il Ministro dei
Lavori Pubblici Araldo Di Crollalanza. Avevo allora 22 anni, unitamente ad
altri giovani fummo comandati allo sgombero delle macerie(ci si può documentare direttamente presso il Museo della civiltà contadina di Aquilonia).

Ecco come conobbi da vicino Crollalanza; si trattenne un po con noi con la serena e
ferma parola di incitamento al dovere; restò per me l’uomo indimenticabile
per i fatti che seguirono. Tutto quello che il sisma distrusse nell’estate
1930, l’anno nuovo vide non più macerie, ma ridenti case coloniche ed altre
magnifiche costruzioni con servizi adeguati alle esigenze della gente del
luogo. Moderne strade fiancheggiate da filari di piante ornamentali; si
seppe anche che costi occorrenti furono decisamente inferiori al previsto
(.)>.

Ecco, caro lettore, perché quel terremoto non è politicamente corretto. Ma
oltre a quello cui ho appena accennato: c’è ben altro.

I lavori iniziarono immediatamente. Dopo aver assicurato gli attendamenti e
la prima opera di assistenza, si provvide al tempestivo arrivo sul posto,
con treni che avevano la precedenza assoluta di laterizi e di quant’altro
necessario per la ricostruzioni. Furono incaricate numerose imprese edili
che prontamente conversero sul posto, con tutta l’attrezzatura. Lavorando su
schemi di progetti standard si poté dare inizio alla costruzione di casette
a pian terreno di due o tre stanze (1) anti-sismiche, particolarmente idonee
a rischio. Contemporaneamente fu disposta anche la riparazione di migliaia
di abitazioni ristrutturabili, in modo da riconsegnarle ai sinistrati prima
dell’arrivo dell’inverno. Si evitava in questo modo che si verificasse
quanto accaduto nel periodo pre-fascista e quanto accadrà, scandalosamente,
nell’Italia post-fascista: la costruzione di baracche, così dette
provvisorie, ma che sono, invece, di una provvisorietà illimitata.
Sembra impossibile (data l’Italia di oggi): a soli tre mesi dal catastrofico
sisma, e precisamente il 28 ottobre 1930 – come a simboleggiare che con
determinati uomini i miracoli sono possibili – le prime case vennero
consegnate alle popolazioni della Campania, della Lucania e delle Puglie.

Furono costruite 3.746 case e riparate 5.190 abitazioni.
Ma, caro lettore, che vivi in questa Italia di piena libertà, ascolta come
Mussolini salutò il suo Ministro dei Lavori Pubblici al termine della sua
opera: <eccellenza Di Crollalanza, lo Stato italiano La ringrazia non per
aver ricostruito in pochi mesi perché era Suo preciso dovere, ma la
ringrazia per aver fatto risparmiare all’erario 500 mila lire>.

Sì, avete capito bene: fate un raffronto con quanto accadde a seguito del
terremoto del 1980.
Ricordo che nel corso di una trasmissione televisiva, ad un certo momento un
pover’uomo telefonò alla RAI e disse che dal 1980 viveva in Irpinia dentro
un container e ancora aspettava la casetta.

Avete ora capito perché i quaquaraqua considerano il terremoto del 1930
politicamente non corretto?

Dato l’interesse dell’argomento e per rinnovare la memoria di quel che fu,
riporto quanto il signor Adolfo Saccà di Roma scrisse al direttore de "Il
Giornale d’Italia" il 28 novembre 1988: <il terremoto del 1908 ridusse in
fumanti macerie Reggio Calabria, Messina e le cittadine di quelle due
province. Con l’aiuto di mezzo mondo ben presto furono costruiti interi
baraccamenti per il ricovero dei superstiti. Ed in quelle baracche vivemmo
per ben venti lunghissimi anni! Dal 1908 al 1928. Finché nel 1928 Mussolini
lasciò la capitale per recarsi in Sicilia. Il Capo del Governo poté vedere
dai finestrini della sua carrozza, riportandone vivissima impressione, il
succedersi ininterrotto di baracche già vecchie e stravecchie. L’anno dopo
al loro posto c’erano già in tutti i paesi terremotati altrettante belle,
decorose palazzine che ancora oggi testimoniano il sollecito, deciso
intervento di Mussolini che ci tolse, finalmente! Dalla miserrima condizione
di baraccati>.



http://pervoi.wordpress.com/2009/04/27/193...e-non-corretto/

T E R R E M O T O 1930

DA "IL TERREMOTO E IL VULTURE e UN EPISODIO DEL TERREMOTO"

di Luigi Chicone

LA FATALE NOTTE DEL 22 - 23 LUGLIO



Era una sera tranquilla quella sera del 22 luglio. In piazza F. De Sanctis i ragazzi giocavano a "un' 'mbonda la luna"; quelli più grandi passeggiavano discutendo ad alta voce; altri, invece, preferivano godersi meglio la frescura sedendosi sugli scalini del Seminario o magari per terra.

Nella campagna illuminata dalla intermittente luce di migliaia di lucciole ed allietata da una grande orchestra di grilli, riposavano i contadini dopo una intensa e sfibrante giornata di lavoro sotto i cocenti raggi del sole: era il tempo della trebbiatura!

Verso la mezzanotte la gente in paese non era ancora andata a letto; sedeva sui gradini della propria casa e chiacchierava col vicino. Il cielo era trapunto di stelle e, nella sua apparente immobilità, qualcosa accadde che certamente non sfuggì agli occhi di molti, come non sfuggì a quelli della vecchietta Giuseppina Pio, nonna di don Antonio Pio; ella vide una stella che rapidamente si mosse nel cielo lasciando una lunga scia luminosa. Quella vecchietta interpretò l'accaduto come un segno premonitore di prossima fine del mondo, di terremoto o peste.

Raccontano i vicini di casa (tra i quali Cardellicchio Carmelinda nata Chicone), che la vecchietta gridò ad alta voce di non andare a letto perché aveva il presentimento che qualcosa, durante la notte, sarebbe accaduto; ma non gli dettero ascolto.

Dopo la mezzanotte ci fù una calma assoluta rotta di tanto in tanto dagli strani latrati dei cani, dal canto dei galli nei pollai e dall'inquietudine degli animali nella stalla. La luna sembrò coprirsi di un velo rossastro.

"Si levò improvvisamente un vento caldo - raccontava Pasquale Pagliuca, che quella notte si trovava nella tenuta Piloni (Macchia del Lupo) - accompagnato da un rombo cupo, che terminò con una forte scossa ondulatoria e sussultoria".

"Poco dopo la mezzanotte - ricorda Rosa Bianco nata Auterio - udii un gran rumore di travi e di tegole che "ballavano"; non sapevo di che cosa si trattasse: Subito dopo sentii bussare alla porta con un bastone: era "zio" Raffaele Fusco, che abitava a fianco; egli gridò: "Antonia. Antò! Auzete, auzete; è fatt lu tarramot !".

" Sentii tremare il letto - racconta l'insegnante Leonardo D'Agostino - poi la finestra si spalancò; il pavimento sprofondò e con esso il cassone, che sollevò un grande polverone asfissiante".

Era il terremoto!

Svegliati nel cuore della notte, i lacedoniesi vissero attimi terribili: grida di feriti, urla disperate dei sepolti vivi, rantoli di agonizzanti, pianti di superstiti per il grande spavento e per la perdita dei loro cari.

Mancava la luce elettrica. Intorno ai superstiti c'erano distruzione e morte, macerie e calcinacci.

Ai primi chiarori dell'alba ancora più tetra si presentò la scena del disastro. Sembrava che il paese fosse stato colpito, durante la notte, da un bombardamento. Il senso dell'orrenda catastrofe non lo davano soltanto i tetti e i muri crollati, i cadaveri insepolti e ancora da tirar fuori dai mucchi di pietra; lo si poteva leggere anche sul volto dei superstiti, di coloro che, scampati in tempo, per tutta la notte avevano vagato ancora storditi dal grande spavento, e stavano lì, lo sguardo fisso al cumolo di pietre, con le narici e i capelli ancor pieni di calcinaccio, nella stessa condizione di chi, ricevuto un forte colpo, non piange finchè non comincia il dolore; ed essi non piansero fino a quando non capirono che non avevano più casa, nè i propri cari; quando cioè quel mucchio di macerie in cui era stata ridotta la propria casa non cessò di essere un'illusione per diventare una cruda realtà.

In quel tragico giorno non v'era creatura che non piangesse un congiunto, non v'era persona che desistesse dal frugare disperatamente fra i rottami, dal rimuovere, con le proprie mani che sanguinavano e le braccia ormai rotte, le macerie, che schiacciarono una mamma, un padre, un figlio, un parente.

I superstiti si aggiravano stravolti, distratti, inedebiti, quasi un'improvvisa follia ne avesse distesi i lineamenti in una maschera raccapricciante fra quelle rovine chiazzate di sangue, fra quelle case ove sembrava essersi svolta una cruenta battaglia. Regnava tutt'intorno il pianto, il lutto ed il terrore; e una pietà immensa spirava da tutte le cose.

Ed ecco cosa scrisse Herman Carbone (1):

"A Lacedonia, dunque, anche lo stesso destino. Pochissime case, forse quaranta, sono rimaste in piedi...Dei vecchi quartieri del paese nessuno è scampato al cruento disastro, chè le macerie, i morti, i feriti, sono disseminati dovunque. Anche a Lacedonia si ha come l'impressione di trovarsi in zona di guerra, poi che le profonde buche, le spaventose voragini d'ogni dimensione, la somigliavano a una sterminata trincea ove sia scoppiata una gigantesca Santa Barbara; ove, nel sangue affoghi un carnaio umano.

Strage e rovina....A pochi metri è una donna che scelte fra le macerie, alcune quadrate e comode pietre, riponendo un'impressionante cura in ogni gesto, ne forma un sedile sul quale riposa. Ma guarda per terra; non ha un sorriso, una parola, un gemito; sembra di pietra anch'essa. Me le appresso stupito....la donna guarda senza vita un cadavere informe".

Crollarono, quindi, molte case in cui la nostra gente viveva quieta, operosa, patriarcale, del tutto ignara di dover essere travolta dalla rapidità d'un cataclisma.

Racconta l'insegnante D'Agostino:

"Tutte le strade erano ingombre. Le case erano crollate, spaccate. Quando giunsi in Corso del Sole trovai la povera "Mammciò", la moglie di Alfonso Paglia, il vecchio organista, che dalla finestra di casa sua chiedeva disperatamente aiuto. In Piazza F. De Sanctis vidi centinaia di persone che urlavano, si lamentavano, si spingevano, litigavano, si rinfacciavano; molti erano sdraiati a terra e rantolavano; altri si abbracciavano. Mi diressi versi l'Istituto Magistrale; anche là folla, urli, pianti, strilli; non se ne capiva niente. Solo all'alba potetti rendermi conto della grande sciagura che si era abbattuta su Lacedonia; le case erano crollate, altre smozzicate, sgretolate, e ciò che rimaneva in piedi, costituiva maggior pericolo.

La gente correva di quà e di là senza sapere dove, con la morte dipinta sul volto. Vi erano madri che stringevano al petto i loro pargoli; uomini che portavano altri bambini per mano; cani, gatti, maiali, muli, capre, che, scampate alla morte durante la notte, scappavano in tutte le direzioni.

Ben 185 furono le vittime ufficialmente accertate (2); i feriti oltre 600; un numero imprecisato, ancora in vita, venne estratto dalle macerie: Una bimba (3) di tre anni fu rinvenuta a distanza 72 ore dalla catastrofe e fu restituita alla vita per merito del Tenente Torracci, del Milite Brusi e del Dott. Giuseppe Sirignano.

Il lavoro di scavo per il recupero dei sepolti vivi continuò febbrilmente specie quando verso sera giunse a Lacedonia il primo Gruppo del 10° Reggimento Artiglieria pesante campale con a capo il Colonnello Principe Biondi Morra Francesco a cui era stato affidato il comando di tutto il settore disastrato che venne diviso in zone. Il comando della zona di Lacedonia fu affidato al Tenente Colonnello Lombardi Cav. Nardi.

I soldati appena giunsero furono messi a far da "beccamorti". Che spettacolo orrendo! Ogni tanto tiravano un cadavere dalle macerie e lo coprivano con una coperta. Per mancanza di bare i soldati seppellivano i morti coprendoli con la nuda terra dopo averli cosparsi con calce vergine. Poveri morti! Non avevano altro conforto che la nuda terra e il pianto dei superstiti costretti a guardarli da lontano. "Tra essi - ricorda il D'Agostino trattenendo qualche lacrima - c'erano pure i due miei compagni Mario Clemente e Gaetano Autorino con i quali fino a mezzanotte avevo giocato in piazza alla "Balalibera e ad 'Un 'mbonda la Luna".

Per il mirabile slancio di solidarietà dei soldati il Consiglio Comunale, riunitosi per la prima volta (il 3-8-1930) dopo il moto tellurico, nell'Ufficio provvisorio di segreteria al Corso Aquilonese, deliberò quanto segue:

"1. Sono nominati cittadini onorari di Lacedonia fascista il principe Colonnello di Artiglieria Biondi Morra Francesco e il Tenente Colonnello Lombardi Cav. Nardi.

2. E' istituito presso il Comune di Lacedonia l'albo d'oro ove saranno consacrati tutti i nomi degli ufficiali e dei soldati del I Gruppo del 10° reggimento Artiglieria pesante campale venuto quì in soccorso dei sinistrati, nonchè i nomi di ufficiali e Militi dell'Arma dei R.R.C.C. e della M.V.S.N. che diedero il loro prezioso e immediato aiuto. Fir/to Podestà Cerchione".

Prestò il suo valido aiuto nel nostro comune, nei giorni 27 e 28 luglio 1930, anche una squadra di pompieri di Napoli al comando del tenente ingegniere Gherardo Grippo, meritandosi, con delibera del 10/3/1931 una ricompensa al valor civile con l'assegnazione di una medaglia d'argento.

Molti furono i lacedoniesi che si distinguero per atti di coraggio anche se pochi sono stati ufficialmente menzionati nelle delibera del 13/2/1931 e proposti per ricompensa al valor civile.

Una medaglia di bronzo fu assegnata a Giglio Michele per aver tratto "in salvo numerose persone rimaste sepolte tra le macerie".

Per la medaglia d'argento furono proposti:

1. Giannetti Rocco fu Ferrante di anni 51 (barbiere) per aver salvato Bizzarri Saverio e sua moglie Saponiero Giovina, Bizzarri Luisa e Cardellicchio Giuseppina.

2. Sessa Domenico di Michele (ramaio) di 19 anni per aver salvato la famiglia del prof. Ferrante Donato fu Enrico, rimasta sotto le macerie.

3. Quatrale Rocco di Giuseppe di anni 40, (oste) per aver salvato Troia Rosina, Francavilla Michele, Rinaldi Pasqualina, Pandiscia serafina, Lo Buono Maria, Zicola Maria, La Stella Silvio e sua moglie, Di Stefano Alfonso, Zichella Raffaele, Auterio Concetta, e Monaco Elena.

Il Re Vittorio Emanuele e le Principesse di casa Savoia vollero portare personalmente anche il loro conforto alla nostra Irpinia. Il Re percorse in lungo ed in largo tutta la provincia confortando, informandosi, dando disposizioni, rendendosi conto personalmente di tutto il disastro e di tutte le necessità, stette a Lacedonia e a Bisaccia, ad Aquilonia e a Villamaina, sulle verdeggianti colline della Baronia e negli ospedali di Avellino i cui servizi di assistenza e di soccorso ai feriti e agli orfani erano stati organizzati sotto gli ordini e sotto la sorveglianza della Duchessa D'Aosta.

____________

(1) Hermann Carbone: "Irpinia Fascista", 29 luglio 1930.

(2) Dal Registro degli Atti di Morte dell'anno 1930; questi i dati ufficiali; molti lacedoniesi, invece, ritengono che i morti dovettero essere più di 200.

(3) Si tratta della signora Enza Scarano in Franciosi.

*Pagina realizzata con la collaborazione di M.Scarano

www.lacedonia.com/terremoto23.7.1930.htm
nel sito visibili anche foto dell'epoca che posso essere proiettate































LIBRO DA CITARE

Il “terremoto del Vulture”.
23 luglio 1930 VIII dell’Era Fascista

Il volume descrive attraverso cronache, immagini e documenti dell’epoca, uno dei maggiori terremoti che hanno interessato il nostro Paese, quello dell’Alta Irpinia del 1930.
L’Appennino campano-lucano è tra le aree del nostro Paese a più elevato rischio sismico per la frequenza ed intensità degli eventi che lo hanno colpito e per le caratteristiche di vulnerabilità del suo patrimonio edilizio.
La monografia racconta le conseguenze che l’evento ebbe sulla società, sulla cultura e sulla storia delle comunità colpite, riconsegnando al territorio la memoria di quanto accadde. La collana di studi monografici curata dal Servizio Sismico Nazionale, della quale questo volume fa parte, persegue non solo un fine divulgativo ma rappresenta anche un efficace strumento di protezione civile.
Gli autori ricostruiscono lo scenario dell’evento attraverso una ricca documentazione d’archivio, articoli di quotidiani e periodici, foto di repertorio.
La struttura consente di guardare al terremoto da più angolazioni: il racconto dei fatti, la descrizione degli aspetti storici e sociali dell’Italia degli anni ’30, la politica del regime fascista nei confronti delle catastrofi naturali, gli studi scientifici attuali relativi all’area e alle caratteristiche del sisma.

classico articolo antifa che minimizza la ricostruzione del 1930


Nella terra degli sconfitti
di PAOLO RUMIZ
Lo vedo da lontano nella pioggia, su un tornante di Castelnuovo di Conza, in mezzo alle forre più cupe dell'Irpinia. Curvo, benedicente, inconfondibile, a poca distanza da una delle chiese più spaventevoli della Nuova Italia cementizia. Padre Pio, ostinato, caparbio, resistente come nessuno allo sterminio dei luoghi. Crollano i paesi antichi, al loro posto nasce l'orrore e il calcestruzzo, la gente scappa, gli inverni si riempiono di pioggia, solitudine e sconfitta amara, gli dèi sconfitti dei Sanniti e dei Piceni si danno alla macchia, ma Padre Pio rimane, viene veloce come il vento a occupare il vuoto della memoria. È l'unico capace di attecchire su queste montagne bastonate da Dio e dagli uomini.

Nubi dense e vento sulla via Appia che non si sa come s'intorcica proprio quassù. Castelnuovo sui tornanti pieni di pioggia, Santomenna appesa al nulla, Laviano disperatamente aggrappata a un monte di nome Eremita. Tutti nuovi e semivuoti, abitati a metà. E tutti con chiese come astronavi e municipi come bunker. Oggi nessuno va volentieri nei due edifici che dovrebbero essere il cuore della comunità. Sono orribili, e per la gente questo significa una cosa sola: Dio e lo Stato sono diventati estranei. A Laviano la chiesa è così periferica che il prete deve andare a racimolare i fedeli casa per casa con l'automobile. Non c'è stato un briciolo d'amore per questi luoghi.

Laviano ha più elettori che abitanti. Metà paese è scappato, non ha resistito al doppio insulto del terremoto e della ricostruzione. Il nuovo sindaco, Rocco Falivena, ha dissepolto dalle macerie il corpo di suo padre e altri 48 parenti e ora deve anche rimediare ai disastri edilizi del suo predecessore, accusato di montagne di reati. È schiacciato da due incubi: la linea d'ombra della morte e la frontiera dell'invivibile. Un uomo amaro, con un compito in salita, come le sue montagne. "Hanno abbattuto tutto ciò che era salvabile. La chiesa madre, la chiesa di San Vito, il municipio. Senza pietà. La gente non sapeva, era stata spostata a valle. In quelle settimane nessuno voleva avvicinarsi a quel luogo di morte... così loro hanno fatto quello che hanno voluto...".

Piove disperatamente sul calcestruzzo già a pezzi, e Falivena racconta che già prima dell'80 era diventato labilissimo il legame con la terra di questo suo popolo montanaro piegato dalla vita di miniera, dalla guerra e dal familismo amorale prima ancora che dalla natura ostile dei luoghi. "Il distacco era avvenuto da anni, il terremoto è stato solo l'occasione per tagliare i ponti... Si è scelto l'assistenzialismo. Pensi! Nelle baraccopoli gli spazzini trovavano bistecche intere nella spazzatura...". Fu il divorzio da luoghi duri e magnifici, da monti pieni di orchidee selvatiche e torrenti popolati da lontre come quelli del Klondyke. Sì, l'Appennino muore tutti i giorni.

Come fai ad amministrare una comunità dove chi ha fatto i soldi col terremoto ha abbandonato trionfalmente il paese e dove chi è rimasto si sente sconfitto perché non ha avuto le protezioni giuste? Come governi un luogo che non ha speranza di rinascere perché nessuno ci sta volentieri? Come abiti una terra piena di fantasmi? Che ne sanno di tutto questo i De Mita e i Mastella? Laviano non è più Laviano ma un'altra cosa, e il paese vecchio i giovani lo scoprono solo su Internet. Alle case nuove la gente preferisce i vecchi prefabbricati dei terremotati, ci vive o li affitta per le vacanze. "Villaggio antistress" si chiama oggi la baraccopoli. Il cartello che lo indica pare una presa in giro, ma almeno dice chiaro che intorno è solo cemento e follia.

Poiché i disastri si chiamano tra loro, accade che una mega-discarica per i rifiuti napoletani stia arrivando sull'altopiano del Fromicoso, posto tra i più belli d'Irpinia, una ventosa prateria dove Federico II faceva roteare i falchi pellegrini. Mesi fa - quando a Napoli imperversava l'emergenza munnezza - l'esercito ha occupato l'area con seicento uomini, l'ha recintata, e ora sarà quello che Dio vuole. Le popolazioni locali hanno protestato, ovviamente senza risultato, e intanto, come se presentissero la scorpacciata imminente, i corvi hanno già formato una nube e stanno roteando sul luogo.

Uccelli neri sull'altopiano, bianchi gabbiani in basso sull'Ofanto. E cani i soliti perduti dappertutto. È tutto così chiaro: gli stessi poteri forti che hanno tolto l'innocenza ai luoghi con ruspa e cemento, oggi gliela tolgono manu militari con i rifiuti. Cento ettari "di interesse strategico nazionale", governati dalla stessa mano che gestisce la ricostruzione dell'Aquila e i grandi eventi berlusconiani come un'unica cosmesi nazionale. Di nuovo popolazioni esautorate, di nuovo spazi governati da un Centro lontano e imperscrutabile come il Cremlino degli zar.

Morale "elevato". Governo "provvido". Popolazioni "percosse". E il dolore come doveva essere in era fascista? "Virile" ovviamente. I proclami dell'agenzia di regime sul terremoto irpino del 1930 dicono tutto della coreografia mussoliniana. Farebbe ridere, se oggi non fosse peggio. Oggi c'è la melassa della compassione, i funerali dell'Aquila trasmessi al rallentatore con musiche strappalacrime, le macerie spudoratamente ostentate come backstage di vertici internazionali anziché nascoste come una vergogna. Oggi c'è una coreografia ancora più sofisticata che copre il crimine e i responsabili.

Irpinia, strade disastrose, anarchia edilizia, emigrazione che continua. Eppure l'Irpinia ha avuto un De Mita che è stato presidente del consiglio e capo del più potente partito italiano. Ha avuto anche - ricordate? - ministri come Fiorentino Sullo e Salverino De Vito. Che beneficio ha avuto questa terra dai suoi padroni? Mah. L'Irpinia non è repubblica italiana ma un feudo assistito dalla medesima. Mentre attraverso paesi nella pioggia, penso che qui il terremoto non è stato una tragedia ma una pacchia, una grandioso regalo, un'elargizione di spazi edilizi ai soliti furbi. "Un evento - s'arrabbia l'amico Marco Ciriello - che ha allargato a dismisura gli appetiti ma non gli orizzonti".

"Mai ha avuto mio padre un favore da De Mita, eppure l'ha sempre votato" lamenta un muratore di Sant'Angelo dei Lombardi dalla faccia tostata dal sole e la schiena spaccata di lavoro. Gli dico che è assolutamente normale, i favori si fanno per comprare i voti che non si hanno, non per pagare quelli già avuti. "Ciriaco tiene l'intelliggienza del capo" sussurra l'uomo, con uno sguardo da film di Pasolini, aprendo le braccia. Allora oso chiedere: e Mastella? "Ah, quello. Tiene la furbizia... d'o serv'".

(15. continua)
(18 agosto 2009)


Drammatico fu il terremoto del 22 luglio 1930, il cui tipico boato fu preceduto da una improvvisa folata di calore. La tremenda scossa sussultoria ed ondulatoria distrusse completamente Lacedonia, come riportò Hermann Carbone in "Irpinia Fascista" (29 luglio 1930): "Pochissime case, forse quaranta, sono rimaste in piedi... Dei vecchi quartieri del paese nessuno è scampato al cruento disastro ... le macerie, i morti, i feriti, sono disseminati dovunque". Le statistiche ufficiali registrarono 185 defunti, anche se i locali stimarono una cifra superiore alle 200 vittime, i feriti superarono i 600, mentre molte persone, per fortuna ancora vive, vennero poi estratte dalle macerie. Anche i Regnanti si recarono sul posto (e in tutta l'Irpinia) per rendersi conto dell'immane tragedia che aveva, ancora una volta, colpito l'area. I superstiti vennero collocati in piccole costruzioni antisismiche, utilizzate fino a dopo il terremoto del 23 novembre 1980.

www.irpinia.info/sito/towns/lacedonia/storia.htm
 
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